A circa sessant’anni dalla morte di Guido De Giorgio – avvenuta il 27 dicembre del 1957 a Mondovì (Cuneo) – si è tenuto a Roma, nella Sala dei Fiorentini, quello che è ‘soltanto’ il quinto evento pubblico dedicato al metafisico di San Lupo, a dimostrazione che la sua intransigenza dottrinaria, che poco si presta ad interpretazioni arbitrarie, l’ha sempre salvaguardato dall’indiscrezione dei più e, soprattutto, dai tentativi di strumentalizzazione più o meno in buona fede.
A portare il loro contributo sono stati la Comunità Militante Raido, Enzo Iurato della Comunità di Heliodromos – realtà promotrici ed organizzatrici dell’iniziativa – ed Angelo Iacovella. Successivamente Alessandro Scali ha presentato il libro Studi su Dante: inedita opera postuma di Guido De Giorgio, la quale ha trovato, per l’occasione, la sua prima edizione ad opera della Cinabro Edizioni. Per motivi familiari è purtroppo mancato all’appello Renato De Giorgio, figlio di Guido, il quale però ha fornito preventivamente per iscritto le risposte ad un’intervista che era in programma.
Riscoprire la figura di De Giorgio è necessario laddove ci si renda conto che le criticità dei tempi esigono un rigore maggiore, in termini di dottrina e metodo d’azione, in capo a coloro che aspirino a combattere il mondo moderno. D’altronde, proprio De Giorgio concepiva il mondo come “campo di lotta per la conquista di Dio”. Come impone la più rigida ascesi guerriera.
La serata è stata aperta dall’intervento di Raido sull’esempio di Guido De Giorgio. Egli ci sprona all’azione, su di sé e sul mondo, che è tale solo se è ben orientata dai Princìpi della Tradizione. Con De Giorgio abbiamo il ‘fianco coperto’: il suo rigore dottrinario rende irriducibile la sua testimonianza, che non accetta di vestire alcun ‘grembiulino’ né alcuna toga neopagana di sorta; ma nemmeno sterili, piccoli e – diciamolo – borghesi confessionalismi.
Guido De Giorgio completa la dialettica tra Julius Evola e René Guénon, compiendone una sintesi suprema. Il primo, che ha smascherato tutti gli inganni delle correnti politiche, sociali e culturali della modernità, richiamandoci al dovere dell’azione ed il secondo che invece ci ha trasmesso la Dottrina tradizionale in tutta la sua coerenza. In De Giorgio la focosità impetuosa del primo incontra la fermezza granitica del secondo. In lui la statuaria chiarezza della Dottrina incontra il bollente impeto di chi sia impegnato nella Grande e nella Piccola guerra santa. Sono dunque loro gli interpreti imprescindibili per chi scelga di servire la Tradizione tramite la militanza, in prima linea sui campi di battaglia, offrendo la vita di tutti i giorni. Questo convegno completa dunque coerentemente il ciclo che si è aperto nel 2014 trattando la figura di Evola, che è proseguito con Guénon e che giunge fino ad oggi con l’incontro di studi su Guido De Giorgio.
Quest’ultimo ci richiama vigorosamente alla lotta sotto le insegne della Tradizione romana, tale nella sua eternità e non nelle sue forme periture, che è l’unica via percorribile per il risveglio dell’Europa. Le sue due facce, quelle di Giano, sono la Romanità e il Cattolicesimo, nel suo aspetto più metafisico e ‘ghibellino’. Il suo Poema sacro è la Divina Commedia, manifesto del ‘Fascismo universale’, inteso non come espressione storico-politica, ma come convergenza universale di forze verso il Centro. Una sola è la sua parola d’ordine, semplice ed inequivocabile: vince Dio chi perde l’io.
A seguire Enzo Iurato, con l’intervento “Guido De Giorgio tra ‘parentesi’: da Mohamed Kheireddine a Padre Pio”, il quale ci ha esposto il percorso spirituale del metafisico: dagli ambienti sufi in Tunisia al ritiro nella canonica di Mondovì, fino ai suoi incontri con Padre Pio, testimoniati nelle sue memorie Ciò che mormora il vento del Gargano.
Prima di cominciare, Iurato ci ha letto le risposte all’intervista scritta a Renato De Giorgio: pieno di corrispondenti epistolari, tra i quali selezionava bene le amicizie, il padre passava la maggior parte del proprio tempo a leggere i testi tradizionali o dell’amico René Guénon. Tra i ricordi è molto suggestivo quello del De Giorgio-padre che, durante le belle giornate, andava a prendere il figlio a scuola, durante le lezioni, per portarlo con sé sulle vette alpine, ritenute più formative.
Enzo Iurato ha ripercorso la vita di De Giorgio prevalentemente tramite le lettere che egli si scambiò con Jafaar Taillard. In queste egli racconta del suo soggiorno in Tunisia ove entrò in contatto con ambienti sufi locali. Egli si recò lì, giovanissimo, con la moglie, la quale gli diede il figlio Havis, morto da eroe sul fronte del Gimma nel 1939. Colui che lo introdusse alle dottrine sufi fu Mohammed Kheireddine – descritto come una figura pacata ed alta, solare e sorridente – a cui rimase riconoscente per tutta la sua vita.
La conoscenza tra De Giorgio e Guénon appartiene invece ad un altro capitolo della sua storia personale, quella del rientro in Europa. Tra i due nacque ben presto una solida amicizia spirituale (note le lettere in cui il francese lo apostrofava come «Cher monsieur et ami») e fu proprio Guénon che, consigliandogli di rimanere nel solco in cui era nato, consolidò la sua appartenenza alla fede Cattolica. Questa, si intende, fu per De Giorgio lontana dai confessionalismi e dal moralismo (in quanto avanza la morale laddove soccombe la Conoscenza), ma fu un alveo adatto ad innestare le sue conoscenze metafisiche, apprese in ambito sufi. Si apre così l’ultima fase della sua vita, in cui, datosi ad una rigida ascesi, vivendo di nulla in una vecchia canonica semi-abbandonata nei pressi di Mondovì, chiarificò ulteriormente le “proprie” posizioni in merito alla Dottrina ed alla metafisica, mantenendosi però nella più rigida ortodossia del tradizionalismo integrale, in cui exoterismo e via iniziatica sono fermamente complementari. È su questa lunghezza d’onda che ebbe modo di conoscere Padre Pio (di cui, tra l’altro, sottolineava la notevole somiglianza con Kheireddine), che inquadrò tra gli ultimi difensori della Fede contro le derive moderniste che avrebbero, in breve tempo, ferocemente attaccato la religione cattolica.
Ha chiuso questa prima parte del Convegno Angelo Iacovella, con l’intervento “Guido De Giorgio tra Oriente e Occidente”. Alla stregua di un Guénon, anche De Giorgio criticò aspramente l’Occidente: questo era già al suo tempo materialismo e scientismo contro ogni spiritualità. Anche per De Giorgio l’Occidente si potrà rialzare solo con un intervento salvifico dall’Oriente, ma l’Oriente, per De Giorgio, è innanzitutto Roma: Oriente dell’Occidente. In Roma Cristo è romano, come già per Dante: la Tradizione romana è la tradizione dell’Occidente che, abbandonate le forme della religione romana, ha vivificato quelle del Cristianesimo, dando vita alla sintesi Cattolica. È da questa prospettiva che viene meno ogni equivoco ‘pagano’ o ‘magico’ (per De Giorgio chi fa magia veramente, oltre a farla all’interno di una via legittima ed integrale, quando c’è, si nasconde e dissuade terzi dal farne) ed è, da questi stessi presupposti, che egli rettificò le posizioni giovanili di Evola, sul punto ben poco ortodosse. Egli, forte di questo radicamento, ha potuto partecipare all’attività del Gruppo di Ur, dalle cui derive ben presto prese le distanze. Il suo approccio sacro alla vita è raccontato in Dio e il Poeta, laddove il dialogo, interiore e continuo del Poeta, che è uomo d’azione (dal greco, ‘poeta’ è colui che fa), sottolinea l’impossibilità dell’uomo di fare a meno di Dio, dunque la necessità di ritualizzare la propria vita.
Questa è la Tradizione romana, che è tradizione d’Europa, di cui di Dante è sommo profeta.
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Ha chiuso il convegno la presentazione di Studi su Dante, ad opera del curatore Alessandro Scali. Il testo è una raccolta di scritti inediti di Guido De Giorgio – che sono stati donati all’Editore dal figlio di uno degli allievi di De Giorgio – su Dante e la Divina Commedia, con cui egli, interpretando il simbolismo esoterico racchiuso in questi versi, riporta non solo lucide affermazioni, ma anche profonde riflessioni.
Colpisce molto la lettura di De Giorgio sul tema dell’Amore come sviluppato da Dante, in particolare nel Canto V dell’Inferno: se da una parte l’Amore, nel suo aspetto sacrale è via di ascesi (come fu per Dante stesso, Fedele d’Amore), nel suo aspetto profano, come il bacio tra Paolo e Francesca, ci fa sprofondare nella mortalità infernale.
Nei Canti IV e VI viene affrontato il tema della morte, anzi, del post-mortem e del Giudizio Universale, in cui vengono notate le affinità e le divergenze tra le istanze dell’escatologia cristiana e quelle del Mahapralaya della metafisica indù.
Nel libro, tra gli altri innumerevoli approfondimenti, viene anche trattato il tema della Trinità, la quale viene messa in relazione alla tripartizione dell’uomo in Spirito-Anima-Corpo e si denotano le perplessità che De Giorgio nutre in merito alla concezione dell’uomo come Anima-Corpo affermatasi nel Cristianesimo. Non è un caso che Dante viene salvato dalle fiere proprio da Virgilio: egli, poeta della Romanità, detiene il Mos Maiorum che solo può condurre l’uomo occidentale alle soglie del Paradiso.
Perché la Tradizione, oltre ogni adattamento, è innanzitutto romana perché sacra e universale.