Traversata della Punta Castore al Monte Rosa
Un viaggio in onore di Julius Evola
La mattina fredda di una giornata invernale dal cielo terso, il nostro Appennino con le cime innevate, l’attrezzatura in macchina per una gita sulla neve. Ciaspolata o scialpinismo, non ricordo. Un pensiero che si insinua, un’idea che nella testa prende forma: questa estate torniamo sulle Alpi e ci scaliamo un 4000. La nostra avventura ha inizio da qui, alcuni mesi orsono e, giorno dopo giorno, preparazione dopo preparazione, è diventata una splendida realtà della quale, attraverso queste righe, cercheremo di raccontare le immagini indelebili che ci portiamo dentro.
Facciamo il punto tecnico e motivazionale davanti ad una birra; sono i primi di giugno e, fugate le ultime perplessità, ci sentiamo carichi e convinti. Abbiamo scelto un itinerario importante, lungo ed articolato, che ci consentirà di entrare gradualmente in sintonia e, come è giusto che sia, in punta di piedi, con la grande montagna che abbiamo scelto di esplorare. E non l’abbiamo scelta a caso, visto che, in quei luoghi della Valle d’Aosta, uno dei massimi esponenti e riferimenti della Tradizione “ha praticato la montagna”, ha vissuto l’esperienza dell’ascesa quale ascesi, ha “pregato” all’interno di una delle grandi cattedrali naturali: Julius Evola ed il gruppo montuoso del Rosa, noi e la vetta del Monte Castore. Sappiamo bene che non c’è nessuna immediata equazione, sappiamo bene che, per accostarci alla grande montagna e per essere degni testimoni di un maestro, dovremo fare le cose per bene.
La nostra preparazione è stata tecnica, fatta di arrampicate in falesia e di manovre e nodi fondamentali da assimilare, la nostra preparazione è stata atletica, grandi dislivelli in salita sulle cime appenniniche. A tale proposito, una bella ascesa merita una citazione: è il 25 giugno 2016, da Fonte Cerreto alla vetta del Corno Grande, passando per la direttissima in salita e la via delle creste in discesa. Oltre 1800 metri di dislivello in giornata, sotto il temporale e la grandine. Splendida giornata di montagna, tanta fatica, ma capiamo che lo spirito col quale ci stiamo avvicinando all’esperienza alpina è quello giusto.
Partiamo giovedì 7 luglio 2016 alla volta della Valle d’Ayas, sette ore di autostrada che filano lisce. Durante il viaggio ci raccontiamo esperienze, analizziamo il percorso, esorcizziamo un po’ di paura con risate ed un certo macabro sarcasmo. Lo spirito è quello giusto, ce lo sentiamo. Prima di arrivare ad Antagnod, la tappa “borghese” del nostro viaggio, ci fermiamo alla falesia di Pontey per un paio di ore di arrampicata. Entriamo in armonia col luogo, tre/quattro tiri sul facile per ripassare e, soprattutto, per sgranchirci le gambe un po’ atrofizzate dal viaggio. La falesia è molto bella, ottima roccia e ben protetta, all’ombra di un sole che anche dalle parti della Valle d’Aosta si fa sentire. Meglio così, ci aspetta un weekend che deve essere necessariamente accompagnato dal bel tempo: sui 4000 metri non ci si avventura senza tempo stabile soprattutto se, come nel caso nostro, l’esperienza e la conoscenza di questi luoghi è limitata.
La sera ad Antagnod ci rilassiamo in una piacevole locanda gestita da Alberto, alpinista, scialpinista, parapendista e chi più ne ha ne metta, insomma uno del luogo che sfrutta al massimo quello che il luogo, una splendida valle e le montagne circostanti, gli offrono. Ci augura buon viaggio, dice che faremo una gran bella gita e gli promettiamo di ritrovarci tra un paio di giorni allo stesso posto alla stessa ora, davanti ad una birra fresca e ad una fumante fonduta.
E’ la mattina di venerdì 8 luglio, si parte. Zaini pesanti, scarponi ai piedi, polmoni aperti e tanta buona volontà di fronte alle sei ore che ci attendono di cammino. Siamo a Saint Jacques, ultimo paesino della Valle d’Ayas dopo la più nota località di Champoluc: da qui che inizia il sentiero n. 7, poco sopra i 1600 metri di quota, che ci condurrà prima al Pian di Verra inferiore poi a quello superiore, al rifugio Mezzalama (intorno ai 3000 metri) e poi al rifugio guide d’Ayas (oltre i 3400 metri), detto anche del Lambronecca. Il sentiero è molto bello, inizialmente lastricato e tra profumate conifere poi, gradualmente, per altipiani che ci avvicinano ai ghiacci severi che incombono in uno stato apparentemente dormiente. La fatica si sente, a volte il sentiero si inerpica ripido, ma soprattutto sono gli zaini stracarichi e gli scarponi invernali che contribuiscono ad una certa sofferenza. Ma le motivazioni sono forti e già l’osservare tanta bellezza intorno a noi vale il biglietto di viaggio. La meteo per fortuna ci assiste, sembrava vi fosse il rischio di qualche temporale ma di fatto così non sarà per l’intera giornata. La spettacolare e didattica morena che scende dalla testata della valle (a circa 3000 metri) fino al Piano di Verra superiore (intorno ai 2300 metri) sembra fatta di cartapesta e dimostra quanto è stata impressionante l’attività dei ghiacciaci nei secoli e nei millenni. Al suo interno cascate, ruscelli impetuosi, ed ogni tanto nella parte alta qualche sordo rumore di qualcosa che cade: pezzi di seracchi misti a roccia che rimbombano nel vuoto e ci ricordano quanto l’ambiente nel quale stiamo entrando stia diventando sempre più severo.
Prima della risalita verso il Mezzalama, una famiglia di stambecchi curiosi si fa osservare da lontano, saranno frequenti gli avvistamenti fino a prima del ghiacciaio. Una piccola pausa per un panino, per respirare l’aria fresca e cominciare a contemplare le grandi montagne da vicino: da sinistra verso destra, sopra l’inquietante ghiacciaio, a tratti grigio, a tratti blu, a tratti bianchissimo, scolpito da venature di crepacci e grandi costruzioni di seracchi, si intravedono i Breithorn, occidentale ed orientale, il Roccia Nera, il Polluce ed infine lei, la nostra grande montagna, la Punta Castore. O meglio lui, visto che la montagna, per quanto grammaticalmente coniugata al femminile, ha una connotazione virilmente olimpica, primordiale, eroica, che colpisce dritta al cuore piuttosto che all’anima, nella sede dello spirito.
Il tratto pendente che precede il rifugio Guide d’Ayas è un bel pendio nevoso che decidiamo di fare con i ramponi per essere rapidi, nonostante la neve abbia già mollato. Ci siamo quasi, la nostra prima parte del viaggio è quasi terminata: un breve tratto attrezzato ed una scala in ferro ci conducono a questo nido d’aquila “appollaiato” su uno sperone roccioso. Tanti alpinisti, stranieri ed italiani, si ritrovano in questo spazio ad oltre tremila metri a riposarsi ed a progettare la scalata dell’indomani, mentre all’esterno il crepuscolo tinge di magnifici colori il cielo ed i ghiacci. Ci sistemiamo per la notte che sarà breve ma allo stesso tempo lunghissima: in quattro, in una piccola stanza, dopo circa mezz’ora l’ossigeno è praticamente assente. Ma, prima, il tempo di una birra rinfrescante, della cena, di qualche foto con degli stambecchi “domestici” e di mandare un messaggio ai propri cari che ad oltre 800 km di distanza ci seguono con il pensiero. Siamo stanchi dopo 1800 metri di dislivello, ma contenti perché siamo entrati nel cuore della montagna partendo dal basso, dai suoi profili più dolci e poetici fino ad arrivare dinnanzi alle porte del grande silenzio: quel silenzio che domani ascolteremo lungo il ghiacciaio, dove il fiato sempre più corto, il battito del cuore ed il ghiaccio scalfito dai ramponi, saranno l’unica musica per le nostre orecchie infreddolite. “La castità della parola e della espressione. La montagna insegna il silenzio. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica ed interiorizza. Il segno, l’allusione, sono qui più eloquenti di un lungo discorso”, ci ricorda Julius Evola. Inoltre, la scelta di fare un lungo avvicinamento si rivela positiva anche per l’indispensabile acclimatamento, in considerazione del fatto che non siamo abituati a queste quote. La nostra scalata alla vetta del Castore è giunta a metà del suo percorso, ha superato il tratto più facile tecnicamente ma che, comunque, ci ha aiutato ad essere più consapevoli e concentrati.
La sveglia suona presto, alle 4.00 di sabato 9 luglio. La colazione non è abbondante, non abbiamo una gran fame vista anche la tensione che si percepisce ed incide sulla bocca dello stomaco. Ma è una tensione positiva, è la paura precedente al potenziale pericolo, da gestire con lucidità per renderla forza che sospinge, concentrazione sui movimenti e sul da farsi, presenza a se stessi laddove la fatalità non deve dipendere da un errore di distrazione. E’ la paura di chi ha rispetto per la montagna, di chi chiede a quest’ultima il permesso per essere accolto, di poter vivere in armonia la maestosa bellezza che tutto intorno viene offerta. E’ la paura della scoperta dei propri limiti, del mettersi in gioco, del vivere un’esperienza unica in cui è necessario dare il massimo senza essere titani. E’ la paura che non si trasforma nel panico, immobilizzante e pericoloso.
Gli ultimi preparativi, il controllo del materiale, il nodo “a palla”, e in due cordate avanziamo lungo il ghiacciaio con passo costante e la piccozza in appoggio. La fatica del giorno prima un po’ si sente ma procediamo senza problemi. Qualche crepaccio ci ricorda di stare attenti, di essere rapidi ed eventualmente pronti all’eventuale manovra di autoarresto in caso di caduta del compagno. Parliamo poco, solo alcune indicazioni tra il primo ed il secondo di cordata, utili ad affinare l’indispensabile sintonia che ci deve essere tra chi ha legato la propria vita ad una corda. Ci dirigiamo, dopo alcuni tranquilli cambi di pendenza, verso i 3800 metri del Colle di Verra che separa i due gemelli, il Polluce, alla nostra sinistra orografica ed il Castore, alla destra. Il sole ci mette un po’ a fare capolino, visto il versante nord occidentale lungo il quale stiamo salendo, ma nel momento in cui decide di scaldarci il viso, anche se per un breve tratto, ci dona forza e calore.
Ci ricompattiamo sotto il ripido versante della vetta del Castore, poco prima di ritornare in ombra. Osserviamo il pendio, quei trecento metri circa dalla pendenza costante, in cui si alternano tratti intorno ai 40/45° al tratto finale che arriva fino ai 50°, impennata prima dell’uscita in cresta. Davanti a noi altre cordate procedono più o meno lente, una in particolare ci mette un po’ in un tratto che sembra ripido e dal colore grigiastro. Ci sarà del ghiaccio vivo da quelle parti?
Inizia il primo traverso, poi il secondo, e poi ancora un altro, lungo la traccia battuta dalle cordate che già sono salite e su di una neve che, come ci avevano detto al rifugio, è buona e “scrocchiarella”. Procediamo di conserva e con la distanza di corda leggermente accorciata, senza troppi affanni ma sempre concentrati perché, lo sappiamo bene, da queste parti non si può e non si deve cadere. Arriviamo in prossimità del passaggio che, da sotto, avevamo visto rallentare molto una cordata: il ghiaccio si alterna alla neve, il punto è infido ed è solcato da un crepaccio verticale da superare in rapidità. Sopra e sotto di noi il pendio è ripido, bisogna stare in bilanciamento nei passi che, mediante la progressione a triangolo, ci faranno superare la difficoltà senza problemi: uno sguardo esorcizzante alla profondità del crepaccio, individuati gli “appoggi” finali per i piedi, fuori il respiro e via, piccozza/ramponi/aria/equilibrio.
L’adrenalina si percepisce, il silenzio ancora di più, il corpo e la mente sono protesi verso il superamento di quello che, a differenza di quanto segnalato dalle relazioni lette, si rivelerà il momento più ostico. Siamo a 4000 metri e nel pieno della parte tecnica della nostra avventura. Saliamo dritti sul pendio più verticale, un traverso verso sinistra ed eccoci al passaggio che tanto temevamo, in base alla relazione: la crepacciata terminale che precede gli ultimi 20 metri sui 50°. Il buco è inquietante e solca quasi tutta la parete nevosa sotto la vetta, ma per fortuna nel punto in cui passa la traccia, il taglio è ancora abbastanza chiuso: un paio di passi da fare con attenzione ed eccoci sull’impennata finale che, scalinata da chi ci ha preceduto, alla fine si rivelerà una bella e rapida salita in progressione incrociata. Siamo fuori, sul terrazzino prima della crestina finale. Davanti a noi vediamo l’infinito e l’eterno, un paesaggio che non si può descrivere perché ogni descrizione sarebbe riduttiva rispetto all’esperienza che stiamo vivendo. Il Cervino, il Bianco, il Gran Paradiso, i Lyskamm, ecc. ecc., tutto intorno è un quadro fatto di sole, cielo, vette, nevi, ghiacci, vento, orizzonti sconfinati che riempiono il cuore di incredibile leggerezza. Aspettiamo l’altra nostra cordata e, nel mentre, ne salutiamo una di tedeschi che arrivata in vetta ridiscenderà sul percorso di salita.
Mancano gli ultimi 100 metri, quelli più aerei e spettacolari: la crestina affilata che conduce alla vetta del Castore. Accorciamo la distanza di corda, e partiamo concentrati su ogni singolo passo. In alcuni punti la cresta è molto sottile, sui 40 centimetri di larghezza al massimo, il passo deve essere sicuro e senza incertezze. Avanziamo coordinati ed in meno di 10 minuti, tocchiamo i 4.228 metri del monte Castore. Siamo saliti fin quassù per onorare la memoria di Julius Evola che tanto ha amato queste montagne, siamo saliti fin quassù perché abbiamo deciso di riscoprirci, prima ancora che alpinisti, uomini. Un po’ di euforia accompagna le foto in vetta, ci abbracciamo scambiandoci i complimenti a vicenda. E’ vero, sono un po’ di mesi che abbiamo lavorato a questo progetto, ma finché non vieni messo alla prova, tutta la preparazione rischia di essere un esercizio didattico, comunque importante: in fondo, nessuno di noi sapeva come avremmo reagito in un contesto come questo che, per quanto frequentato in passato da qualcuno un po’ più esperto, non rappresenta certo l’abitudine. Lo stendardo sventola in alto, la brezza da nord spinge ancora più lontano i nostri nobili pensieri, la nostra gratitudine nei confronti della montagna che ha deciso di accoglierci.
Proseguiamo per il restante km di cresta, elegante, a tratti molto aerea, ma decisamente più facile; l’attenzione è sempre massima ma, non lo possiamo negare, siamo molto più rilassati. Dal colle del Felik, attraversiamo il lungo pendio che conduce al rifugio Quintino Sella, camminando su una neve cedevole e, quindi, potenzialmente più pericolosa per gli eventuali crepacci nascosti. Nuovamente il nodo “a palla” e, accecati dal sole, arriviamo stanchi ed accaldati al rifugio, a 3585 metri. Pausa di un’ora abbondante, via gli scarponi, ci rilassiamo meritatamente fuori dal rifugio. Che giornata indimenticabile!
Si riparte, ci attendono gli oltre 2000 metri di discesa per ritornare a Saint Jacques. La crestina del Sella si rivela una grande sorpresa, attrezzata ma molto esposta, affollata di gente che sale e che scende: ancora una volta massima concentrazione, perché siamo stanchi e con gli zaini stracarichi. Ci dirigiamo, finita la cresta, sugli infidi pendii di neve scivolosa in direzione Bettolina e, prima del colle della Bettaforca, piaghiamo verso destra per farci 700 metri di sentiero ripido tra sfasciumi di roccia fino al Pian di Verra superiore. La stanchezza è tanta, ma ormai siamo spinti dalla volontà e dalla felicità di quanto in questi due giorni abbiamo fatto. Il tempo di riposarsi un’altra mezz’ora e di fare un rigenerante pediluvio ed eccoci, veloci, giungere alla piazzetta del paese poco prima delle 8 di sera.
Siamo nuovamente al punto di partenza, abbiamo concluso il nostro anello di 29 km cumulando oltre 2600 metri di dislivello: abbiamo camminato e scalato, faticato e sudato, ma soprattutto abbiamo respirato e vissuto. Siamo stati testimoni della maestosità della natura e di come l’uomo, in quanto infinitesimale ospite di questi luoghi, abbia solo un modo per approssimarci: preparandosi, sicuramente, ma soprattutto non perdendo mai quel reverenziale rispetto che si ha nei confronti di qualcosa o qualcuno di grande. Un sovrano, seduto sul trono, ci ha atteso e fatto entrare nel suo castello, donandoci parte di quella grandezza di cui è portatore. La nostra avventura finisce qui, almeno per questa stagione, davanti a quella birra fresca tanto agognata e sul balconcino dell’albergo ad osservare un cielo stellato che abbiamo visto da molto vicino.
“Chi sale sugli alti monti, ride sopra tutte le tragedie e tutte le tristizie seriose”, insegnava Nietzsche. In questi giorni oggi i nostri occhi hanno riso veramente.
Onore a Julius Evola.
In alto i cuori!