Mercoledì 7 agosto, si è svolta la tradizionale e sempre ardua escursione sull’Etna, e come lo scorso anno, essa prevedeva la scalata completa fino in sommità, al cratere principale. Alla partenza non siamo esattamente, come si suol dire, freschi come le rose: l’orario di ritrovo è fissato alle 15.30 del pomeriggio, dopo già qualche giorno di campeggio sotto il secco clima siciliano.
Lo zaino risulta parecchio appesantito dall’equipaggiamento che deve fornire i necessario per passare anche la notte all’aria aperta, e comprende, tra l’altro, un kit di sopravvivenza “razionato” con acqua e cibo limitati. Un ulteriore fattore che contribuisce a porci di fronte alla nostra capacità di tenuta non solo fisica ma anche mentale: occorre infatti una buona capacità di autogestione per far sì che i viveri bastino per l’intero arco delle quasi 22 ore totali di assenza dal campo-base. Consapevoli di ciò ci raduniamo compatti e, con spirito e buona volontà, cominciamo la salita. Il passo dettato dal gruppetto di testa è serrato, il ritmo intenso, e nonostante la pendenza non sia elevata, già prima dell’arrivo alla consueta tappa del rifugio Galvarina (1878 m s.l.m.), dopo circa 3 ore di cammino, avvertiamo i primi segnali di stanchezza. Il gruppo che, nonostante un paio di rocambolesche soste (impreziosite dalla presenza di non proprio amichevoli insetti), si è comunque sfaldato in gruppetti, si riunisce nella pianura sottostante l’oramai incombente dimora del dio del fuoco. La piana diviene l’accampamento di chi, non sentendo la forza sufficiente per andare avanti, decide di fermarsi: il resto della truppa continua con tenacia l’escursione, consapevole di dover percorrere almeno ancora 900 m di dislivello prima di accamparsi per la notte e deciso a spuntarla in questa lotta sia con sé stesso che con il maestoso monte (il più alto vulcano d’Europa nonché tra i più grandi al mondo). Ci si accorge ben presto come il difficile cominci solo in quel momento: la pendenza si accentua notevolmente, il sentiero sparisce e si procede passo dopo passo tra rovi, erbacce, roccia vulcanica e sabbioni. E’ dunque questo il momento in cui il dialogo interiore si intensifica, quando la fatica fa emergere il nostro lato “debole” e “borghese” che vorrebbe costringerci a fermarci, rinunciare a sottoporre ad ulteriore sforzo le nostre già stanche membra. Ma, consapevoli che la salita è esperienza temprante, simbolo delle difficoltà della nostra lotta quotidiana, non cediamo e continuiamo, seguendo ritmicamente il passo di chi ci precede, avanzando inesorabilmente verso la vetta che si avvicina sempre di più. Anche in questo secondo tratto il gruppo si sfilaccia leggermente, e necessariamente ci si ferma per il riposo e per coprirsi con maglie pesanti e felpe. La notevole escursione termica data sia dall’altitudine elevata che dal progressivo calar della notte, comincia infatti a farsi sentire: brividi di freddo si sono ora sostituiti al caldo afoso della salita pomeridiana, fiaccando ulteriormente corpo e gambe.Senza timore e spinti dalla voglia di raggiungere finalmente il luogo dell’accampamento per la notte, continuiamo con convinzione, e sembra che a quel punto nulla possa impedirci di arrivare vittoriosi in vetta… ma è proprio allora, giunti a circa 2500 metri s.l.m. che accade uno sgradevole imprevisto. Uno strano odore comincia a diffondersi nell’aria, e un conseguente bisbiglio e chiacchiericcio si fa strada tra di noi. Una chiamata d’avvertimento da parte del gruppo arrestatosi alla Galvarina, chiarisce tutto: una minacciosa e scura nube di zolfo sta scendendo proprio lungo il versante che noi stiamo percorrendo. Qualche rapido scambio di opinioni non fa che confermare una decisione in fondo già presa: l’aria è irrespirabile, brucia alle narici e agli occhi, e l’elevata quantità di zolfo presente, reagendo con l’umidità, potrebbe causare emorragie nelle vie respiratorie con rischi di soffocamento. Non solo, dunque, ci risulta impossibile fermarci per la notte, ma è necessaria una brusca inversione di rotta, per poter uscire al più presto da una nube che non ci permette di respirare bene.
La vetta sembrava oramai alla nostra portata… questa volta però ci siamo trovati di fronte ad un ostacolo che non potevamo superare. Nessuno di noi ha quindi colto il dietro-front come una resa, ma bensì come un insegnamento valevole per qualsiasi situazione: la natura non va mai sfidata oltre il limite che le nostre capacità fisiche e psichiche ci permettono e bisogna essere coscienti del fatto che procedendo oltre tale confine il rischio diviene elevato a tal punto che il nostro slancio diviene ottusa e inconcludente vanità personale. A quel punto la sfida con sé stessi per il miglioramento decade brutalmente in una pura pretesa di voler gonfiare smisuratamente il proprio ego. Ecco quindi che nel giro di pochi minuti si inverte la situazione che ci vedeva faticosi e ansimanti procedere in salita: ora scendiamo con sorprendente rapidità tra sabbia e rovi fuggendo da un’aria fetida e fastidiosa, per raggiungere il resto dei nostri accampati alla Galvarina. Il ritorno accompagnato da canti, procede senza imprevisti, e intorno alle 23.00 ci sistemiamo sfiniti nei sacchi a pelo dopo aver consumato un altro po’ delle provviste in dotazione per cena.
La mattina seguente, dopo la colazione, ci incamminiamo sulla via del ritorno ma decidiamo di compensare il mancato raggiungimento della cima con un esaltante fuori percorso: ci cimentiamo nella scalata di due montagnole vulcaniche, i Monte de’ Fiori, entrambe di giovane formazione e interamente ricoperte da rena rossa e roccia vulcanica. Dire che né è valsa la pena è riduttivo: dalla cima di questi due “cucuzzoli” abbiamo potuto osservare a bocca aperta il bellissimo panorama che l’isola offre in tutto il suo splendore. Per non parlare poi delle esaltanti discese, degne del miglior slalom gigante invernale, lungo i sabbioni… salvo poi doversi togliere qualche “sassolino” di troppo dallo scarpone!
Al ritorno, qualche silenziosa riflessione su un’escursione incompleta di fatto ma altamente formativa: il gigante di fuoco ci ha posto di fronte un confine che non dovevamo superare. Consapevoli che il cratere è sempre lì ad attenderci, roboante e mormorante: non ci abbattiamo, ma bensì ne usciamo fortificati grazie ad un’ importante esperienza. Ci riproveremo sicuramente in futuro, provando a raggiungere, nel frattempo, altre vette non meno ardue, intense e impegnative!