«Già nella vita comune va seguita una disciplina, atta a far realizzare l’inutilità di ogni sentimentalismo e di ogni complicazione affettiva […] Prendi la compassione: non rimuove nulla del male altrui, ma fa che esso conturbi il tuo animo. Se puoi, agisci, assumi la persona dell’altro e comunicagli la tua forza» – Julius Evola
All’inizio della “Fase 2” della quarantena, dopo oltre due mesi di monotematico bombardamento mediatico, improvvisamente i megafoni di regime hanno cambiato cantilena: da una parte, sono tornati alla ribalta sul tema della regolarizzazione degli immigrati (tranquilli, le lacrime del ministro Bellanova non sono riuscite a farci sentire cattivi, soprattutto di fronte alle migliaia di saracinesche che, dopo la quarantena, non si sono più alzate), dall’altra, sulla liberazione di Silvia Romano.
In fondo, sono sempre le due facce della stessa medaglia dello stesso occidente decadente, quello del bailamme tra i radical-chic e gli ultimi paladini del neo-conservatorismo.
Dei fenomeni migratori, di come questi rappresentino una ghiotta occasione di arricchimento per grandi capitalisti, sfruttatori, caporali e mafiosi, tutto sulla pelle di chi migra e di chi ospita, abbiamo già parlato nel Dispaccio di ottobre scorso, che potrà fornire anche gli opportuni punti di riferimento per poter interpretare l’avvenuta regolarizzazione, che, al termine della quarantena, è sembrata essere la cosa più urgente.
Ancora una volta, la Visione del mondo tradizionale impone di riconoscere dignità ad ogni vita umana, a ogni latitudine e di ogni schieramento, anche quelli differenti dai nostri. Probabilmente, è proprio tale intimo sentire a distinguere maggiormente chi ha una visione spirituale della vita – noi – e chi no – loro. Su tale presupposto, pertanto, non possiamo che essere lieti del fatto che la Romano si sia ricongiunta con la propria famiglia, dopo essere stata prigioniera, per quasi due anni, di uno tra i più feroci movimenti terroristici (e non autentici islamici!); ma d’altra parte è anche opportuno osservare tali fenomeni con lucidità e intelligenza, per non confondere, come il mondo moderno vorrebbe, i ruoli del protagonista, della vittima e del carnefice.
Umanitarismo, pantomima della solidarietà
A questo punto, tale recente fatto di cronaca ci dà il “La” per affrontare l’altra faccia dell’umanitarismo decadente: quella del volontariato e, soprattutto, dei moventi che spingono un certo tipo di volontariato, fatto di emozione, appagamento e senso di colpa, in luogo di un altro, fatto di humanitas, identità e consapevolezza, lucidità, quotidianità, servizio e testimonianza.
In ogni caso, la solidarietà è sempre un valore positivo ed è un valore che ha sempre fatto parte della nostra identità europea, di cui possiamo essere orgogliosi; a cominciare dall’etica del mondo greco e di quello romano. Inoltre, la solidarietà, nelle parti più remote del mondo, è stata incarnata dai missionari che, ancora oggi, eroicamente e coscientemente, sono vittime di efferate violenze ed omicidi, nell’assordante silenzio dei media. D’altronde, il nostro mondo – e quando diciamo «nostro» non intendiamo quello occidentale, del capitalismo che affama, ma quello di chi svolge un servizio silenzioso, che disseta i corpi e le anime – è sempre stato in prima linea per trasmettere non solamente aiuti materiali, ma anche un modello di Civiltà, soprattutto nei luoghi dove possono avere gioco facile l’ignoranza e la ferocia di certe entità politico-militari, al servizio e al dollaro del liberismo: Daesh, Boko-Haram o Al-Shabaab, come già Al-Qaeda.
Proprio per tale motivo, detestiamo il colonialismo contemporaneo di matrice USA, il quale, con la scusa dell’esportazione della “democrazia”, destabilizza i paesi che rivestono per loro un’importanza strategica, per acquisirne il controllo; così come rifiutiamo il colonialismo tipico dell’età moderna, che, per penetrare in nuovi mondi, strumentalizzò spesso le c.d. “missioni di conversione”.
Chi è il “prossimo”?
Sulla stessa lunghezza d’onda, rifiutiamo a priori il volontariato laico (ateo) delle ONLUS e delle ONG, espressione – nel migliore dei casi – di uno schizofrenico sentimento umano, penoso segno dei tempi. Viviamo, infatti, in un mondo che oscilla tra la corsa cieca alle chimere del benessere e il senso di colpa dell’essere bianchi, occidentali ed europei: la rincorsa al nuovo modello di iPhone e la pena per i lavoratori sottopagati in fabbriche delocalizzate, i soldi spesi per il macchinone e le maratone di beneficenza, la lotta alla fame nel mondo e i runner sottopagati, il tutto coronato dai bei discorsi sugli immigrati fatti con la ‘erre’ moscia di fronte ad un cocktail.
Insomma: il migliore dei mondi possibili, in cui, però, abbiamo sempre qualcosa di cui vergognarci… quando per lo meno rimane un barlume di ipocrita coscienza.
Non conosce nemmeno – questo mondo infame – la vergogna, il bipolarismo della filantropia dei radical-chic: quelli che esultano per l’aborto – magari giustificandolo con la scusa della ’mancanza di mezzi’ (leggasi «voglio prima farmi una carriera e godermi lo stipendio e le ferie») – e poi si stracciano le vesti per i bambini in Africa; gli stessi che vanno nell’altra parte del mondo, con i propri ’messaggi di civiltà’, magari lasciando la nonna in un ospizio o un amico in situazioni di difficoltà. Il loro dirimpettaio del pianerottolo non mette insieme il pranzo con la cena, ma questi fenomeni volano nel Niger per farsi le foto con i quattrenni neri. D’altra parte, dovremmo ricordarcelo sempre: nulla avviene per caso e se la Provvidenza ha messo sul cammino della nostra vita una persona che soffre e ha bisogno della nostra solidarietà è proprio a quella persona – il ‘prossimo’ – che dobbiamo fornire il nostro indefesso e coraggioso aiuto: non ci è dato scegliere chi aiutare, bensì solo rispondere ‘presente!’ alla chiamata della solidarietà che ci si para davanti. Eppure tanti girano lo sguardo dall’altra parte. Infatti, tantissime persone, più o meno vicine e che hanno un concreto bisogno, sono quotidianamente dimenticate per l’appagamento psicologico dato dal ‘gusto per l’esotico’ che spinge molte persone, anche in buona fede, alla solidarietà turistica, simulacro di quella vera fatta di sforzi silenziosi e duraturi, verso, in primis, chi ci sta intorno.
Salvare i “selvaggi” col sorriso falso delle ONLUS
Sulla confusione tra solidarietà autentica e umanitarismo turistico giocano numerosissime ONLUS, le quali permettono, per periodi di tempo limitati, di ‘farsi l’esperienza’ sul posto, ignorando (o nascondendo loro) i pericoli concreti che conosce bene chi ha fatto del missionarismo una vera scelta di vita e non delle ‘esperienze’ per soffocare sensi di colpa indotti o per colmare vuoti nelle loro vite. Tale modo di agire ed operare si fonda sull’idea, superficiale e ignorante, per cui il bianco dovrebbe riscattare secoli di soprusi e angherie nei confronti del ’buon selvaggio’ di rousseauiana memoria; salvo poi doversi confrontare con efferate bande di terroristi, che di buono non hanno nulla, ma solamente di selvaggio.
Ebbene, di fronte alla schiavitù culturale di tali aspiranti missionari, cresciuti a MacBook, Netflix, Osho e musica indie, ribadiamo il senso dell’ospitalità ellenica, della Pietas e dell’Amor romani, della Charitas cristiana che sono le fibre più dure e vere della nostra Identità: quella che può permetterci di guardare il mondo senza alcun senso di colpa, l’unica che può essere un sostegno nei momenti più duri.
La solidarietà, quella vera
Tutto ciò rende per noi la solidarietà un imperativo, che ci impegna nei confronti sia dei più prossimi, sia dei più lontani, ma, sempre, ognuno al proprio posto, sulla base di una conoscenza e di una preparazione: perché la solidarietà è soprattutto testimonianza. Da un punto di vista tradizionale, l’aiuto è vero se viene espresso anche oltre la mera sfera biologica: corpo e anima devono essere nutriti; perché non si muore solamente per mancanza di cibo, ma anche per mancanza di Spirito.
Per tale motivo, le vere missioni hanno sempre una controparte spirituale, che le rende atto di vera Charitas, vero dono, che nulla ha a che fare con i facili appagamenti psicologici delle “missioni-vacanza” di ONLUS e ONG; di quelle con cui hai sempre una storia da raccontare. Le innumerevoli opportunità di solidarietà offerte dal nostro quotidiano mancano del fascino dell’esotico e richiedono il nostro spirito di servizio che, nobilitato dall’eroismo della tenuta nel tempo, soffoca la vanità della gratificazione personale, in un servizio fatto di reale concretezza.
Noi non abbiamo nessun “vuoto cosmico” da riscattare: siamo figli dell’Europa che ha dato lustro al mondo, non dell’Occidente che l’ha affamato.
Humanitas
Scegliamo la humanitas e non l’umanitarismo: sia la solidarietà una scelta e una visione del mondo, non un’esperienza o una fuga momentanea per appagare il proprio ego, sollecitato dalla plateale emozione di aiutare chi è più lontano, dimenticandoci che intorno a noi un mondo sta crollando. Impariamo a leggere, negli occhi di chi ci sta a fianco, una richiesta di aiuto, magari celata, e dedichiamo a chi ne ha bisogno i nostri sforzi: non solo in termini materiali, ma anche attraverso un conforto, una parola, un gesto, un’intenzione profonda, che siano il riflesso di una sensibilità acuita.
E se qualcuno vorrà partire, nella consapevolezza dei rischi connessi, lo facesse pure. Ma all’esito non di un bieco sentimentalismo o di un malcelato egocentrismo, alla base del solidarismo, ma di un profondo discernimento, di un preventivo dialogo interiore e di un’intima adesione alla bellezza del Dono e al servizio nei confronti dell’altro, alla base della solidarietà che si vuole portare.
Per tutti coloro che hanno intrapreso una scelta di vita militante, siano queste le medesime linee-guida della propria azione: veramente lo sforzo sia disindividualizzante, veramente l’atto sia testimonianza. Il nostro impegno sia una scelta di campo e di vita, un servizio alla Tradizione e a chi, intorno a noi, ha bisogno della Luce che abbiamo saputo coltivare, non della nostra vanità.