Al termine di ottobre, in Polonia, è stata approvatala la legge che vieta l’aborto in caso di malformazioni del feto: il c.d. aborto ‘eugenetico’. Com’era prevedibile, subito, la sovversione ha sguinzagliato le proprie orde, prive di coscienza e capacità critica, braccio armato di utili idioti. E’ l’ennesimo attacco alla vita, con il pretesto di tutelare presunti ‘diritti’, che sono piuttosto capricci e cavalli di Troia per veicolare nefandezze del genere umano. Le argomentazioni dell’abortismo non sono mai supportate da analisi lucide e obiettive, ma sempre supportate con posizioni unilaterali e ideologiche, cariche di sentimentalismo, urla e slogan.
Gli abortisti sono stati capaci di portare la discussione sull’aborto nell’ambito del rapporto uomo-donna, ovviamente rivendicando i diritti della ‘donna libera’ sull’uomo violento e il patriarcato. Così gli abortisti hanno eliminato il vero soggetto debole e da tutelare in questa discussione: il feto, il figlio, la vita. Gli abortisti sanno che contro le argomentazioni logiche che esporremo di seguito non si può obiettare nulla: dunque hanno ‘eliminato’ il feto e hanno fatto diventare l’aborto una “lotta femminista”.
Per questo, analizzeremo ora tali posizioni lucidamente, senza sentimentalismi, facendovi emergere tutti gli inganni che nascondono.
«L’aborto non è omicidio»
Questo è il presupposto su cui si basa tutta l’ideologia abortista.
È il retorico inganno delle parole: chiamarlo ‘aborto’ e non con il suo nome, ‘omicidio’, per renderlo accettabile. Ma la scienza è chiara sul punto: quando la cellula-uovo può essere fecondata, il corpo produce il progesterone, ormone necessario per la gravidanza. Fecondata la cellula-uovo con il seme maschile, l’embrione che ne deriva si impianta nell’utero, che lo accoglie e lo alimenta. L’embrione, l’essere manifestato è già vivo – tanto che assume comportamenti attivi – e distinto dall’utero materno col quale si rapporta. Il nuovo essere induce la madre ad adattarsi alle proprie necessità di ospite e con lei interagisce. La madre lo riconosce come figlio e accoglie un corpo che è effettivamente estraneo rispetto a sé, senza tentare di espellerlo.
Da lì si svilupperanno poi il feto, il neonato, il bambino, l’adolescente e l’adulto: espressioni di un unico essere concentrate tutte nelle possibilità insite nell’embrione. Stesso essere, stadi diversi: negarlo significa dire che due differenti momenti storici della stessa persona (il giovane e l’anziano), siano due essere diversi.
Dunque, il discrimine assurdo dell’abortismo è: “nella pancia non è vita e puoi ucciderlo, fuori no”. Per ora.
«L’utero è mio e ci decido io»
Questo famoso slogan femminista mostra tutta la propria assurdità ideologica, proprio alla luce dei processi biologici appena descritti. Se il feto, come dimostrato, è ‘altro’ rispetto alla donna, lo è anche rispetto all’utero. A una presunta libertà della donna sull’utero, corrisponde il diritto del feto sul suo corpo e sulla sua determinazione.
Proprio perché l’utero ospita il concepito, l’uno non può logicamente essere identificato all’altro.
Di conseguenza, l’ammissione, per cui l’utero appartenga alla donna, non dà alla stessa alcun diritto sul concepito, che ne è ontologicamente distinto. Se ospito gente a casa, ciò mi dà diritto su di loro come se fossero casa mia?
«La donna può scegliere perché ne porta il carico»
L’errore di tale affermazione è ancor più evidente: avere una responsabilità non significa poterne abusare arbitrariamente.
Proprio perché la donna sceglie di assumere la responsabilità della gravidanza (salvo il caso di stupro che vedremo più avanti), lei non può arbitrariamente decidere di venirne meno. Il diritto di tutte le epoche e di tutte le culture prevede diritti e obblighi. Obblighi tra cui la responsabilità genitoriale. Il rifiuto di responsabilità è un cancro dell’Occidente moderno.
Inoltre, se il feto è prodotto dall’incontro dell’elemento maschile e dell’elemento femminile, come è possibile mettere da parte le istanze e le volontà del padre? L’abortista dirà “Ma è la donna che se lo carica per nove mesi”. Risponderemo: la genitorialità non è di 9 mesi, ma di una vita intera, finché c’è vita. Dunque, perché ridurre il percorso genitoriale al solo momento in cui la donna sostiene maggiormente il peso?
Mettere al mondo una vita è un fatto che non riguarda solamente la madre, semplicemente perché non è un fatto ‘della madre’.
A conclusione, sembra opportuno considerare che le istanze abortiste derivano direttamente dal mondo femminista, il quale si schiererebbe contro un presunto ‘patriarcato’. E’ sempre stato messo all’indice lo ius vitae necisque (il ‘diritto di vita e di morte’) del patriarcato sugli altri componenti della propria famiglia: se è sbagliato quando è in capo all’uomo, perché allora sarebbe giusto quando attribuito alla donna?
«Non posso tenerlo, non ho i mezzi per farlo crescere»
Questa è una delle argomentazioni più comuni e inconsistenti, soprattutto tra i ceti sociali ‘medio-alti’. Curiosamente, vediamo che proprio in tali contesti c’è meno prole, rispetto ai ceti definiti ‘medio-bassi’. Da solo, tale dato dimostra come il ‘non avere i mezzi per far crescere un figlio’ sia un concetto del tutto pretestuoso e relativo. Infatti, fino alla metà del secolo scorso, in misura largamente diffusa, con pochi mezzi e con notevoli sacrifici sono proliferate famiglie molto numerose. Inoltre è sempre possibile portare a compimento la gravidanza e poi affidare il figlio a strutture sociali che se ne occuperanno interamente.
Questa frase, dunque, è solo una scusa per chi preferisce uccidere il figlio in grembo piuttosto che rinunciare a serate-cene-vestiti-viaggi-libbbertà-scappatelle-profumi-massaggi-botulino. È, dunque, più onesto ammettere a se stessi di non essere disposti a rinunciare a compiere i dovuti sacrifici e al benessere borghese.
Inoltre, spesso, dicono: «non ho i mezzi» è «non ho una situazione sentimentale stabile». E ripetiamo: i neonati si possono lasciare nella struttura ospedaliera dove si partorisce, affinché venga adottato. Una scelta che, da una parte, può apparire dolorosa, ma che, dall’altra, dà la possibilità a un essere umano di poter vivere e crescere in una famiglia che, invece, in via naturale, non avrebbe potuto averlo, permettendogli così di poter vivere e poter contribuire al mondo con tutte le sue possibilità.
«Ha una patologia congenita, se lo tenessi lo condannerei a una vita di sofferenza,
che preferisco evitargli»
Innanzitutto, anche questo è tutto da vedere, perché concetti quali ‘felicità’ o ‘sofferenza’ non sono univoci e definibili a priori. Persone con patologie congenite riescono a sviluppare sensibilità e capacità del tutto peculiari, tramite cui trovano il loro posto nel mondo. L’ignoranza dell’uomo moderno è proprio quella di credere che la ‘felicità’ fatta di ‘sesso-soldi-successo’, nella sua artificialità creata ad hoc per mere finalità commerciali, sia un criterio univoco e universale.
Fatte queste premesse, occorre poi chiedersi: «la ‘vita di sofferenza’, che si preferisce evitare, sarebbe quella del nascituro, o, piuttosto, la mia, in quanto dovrò, con enorme impegno, prendermi cura di una creatura che avrà bisogno di me e in cui vedo negate le mie aspettative borghesi?». Molto spesso la risposta è la seconda.
Fatte queste premesse, occorre poi chiedersi: «la ‘vita di sofferenza’, che si preferisce evitare, sarebbe quella del nascituro, o, piuttosto, la mia, in quanto dovrò, con enorme impegno, prendermi cura di una creatura che avrà bisogno di me e in cui vedo negate le mie aspettative borghesi?». Molto spesso la risposta è la seconda.È facile darsi alibi, per nascondere la delusione del dare alla luce una creatura che non risponde alla nostra idea, del tutto personale, di felicità. In una società in cui, abituati alle scintillanti immagini pubblicitarie, tutto deve essere ‘perfetto’ – di una ‘perfezione’ del tutto umana – anche un bambino è concepito come un prodotto che, se acquistato ‘difettoso’, è possibile ‘restituire al mittente’. Le stesse persone che si commuovono quando vedono un bimbo paraplegico in carrozzina e lo accarezzano – e magari poi fanno una donazione per la ricerca – sono quelle che poi lo avrebbero ucciso in grembo perché “come può essere felice?”.
Il concetto di felicità oggigiorno è veramente compromesso e sconosciuto: si confonde la felicità con la soddisfazione delle passioni e dei bisogni secondari e allora come può un bimbo in carrozzina ‘essere felice’ e soddisfare le sue passioni? Evidentemente la felicità non è quello, bensì è la realizzazione di se stesso secondo le proprio possibilità. E, dunque, chi può dire che un bimbo in carrozzina non sia in grado di realizzarsi?
Se ci si scandalizza tanto per le concezioni eugenetiche di ‘razza pura’, perché si ritiene legittimo abortire un feto perché affetto da patologie?
Prendersi cura di un essere, soprattutto se in difficoltà, dà un’autentica possibilità di Amare.
E certo, tali scelte non sono facili e impongono molto coraggio.
«L’aborto è strumento di emancipazione femminile, in quanto libera la donna dall’idea ‘patriarcale’ che la vuole solo come procreatrice»
Di fronte a un’affermazione del genere, è necessario fermarsi a riflettere: davvero, certe donne si sminuiscono e si lasciano sminuire così tanto? Davvero, certe donne disprezzano se stesse al punto tale da ritenersi dei meri sacchetti da riempire e svuotare all’occorrenza?
Sono affermazioni brutali, ma è la realtà che si cela negli inganni dell’ideologia. Ragazze, fidanzate, mogli, madri, sorelle… la dignità è piuttosto nel custodire il loro mistero, dedicandolo a chi veramente lo merita: un uomo che sappia amarle, un figlio da crescere e amare.
Non si tratta di frustrare legittime aspettative e possibili soddisfazioni sul piano professionale, ma di ricordare sempre che l’educazione e la crescita di un figlio – per il padre e per la madre – sono più importanti di qualsiasi altro contratto, bilancio o progetto lavorativo (con cui, spesso, vi si chiede di rinunciare a voi stesse per arricchire altri).
Proprio in questo, le donne sono superiori e più indispensabili di qualsiasi altro uomo.
«…e in caso di violenza o stupro?»
Il terreno di questa argomentazione è il più ‘scivoloso’ e subdolamente sventolato dagli abortisti, perché più ‘sentimentalmente’ forte. Qui la donna non solo rimane incinta non per propria volontà, ma anche perché la stessa è oggetto di una deprecabile, imperdonabile e dolorosissima violenza, forse anche più grave di un omicidio, per chi la subisce. Anche in questo caso-limite è necessario trovare la forza e la lucidità per ribadire la giustizia di una scelta coraggiosa.
Lucidamente e al netto di ogni possibile e umano sentimento di rabbia e repulsione, è necessario premettere che non è un crimine che ripara a un altro crimine: purtroppo, due crimini si sommano, non si annullano.
Di conseguenza, non appare opportuno sovraccaricare, tramite il compimento di un crimine (l’aborto), chi un crimine l’ha già subìto (lo stupro), soprattutto sulla base di valutazioni effettuate a caldo, piene di umano e giustificato rancore e risentimento, sentimenti che, purtroppo, non sono mai costruttivi. Uccidere quella vita aggiunge morte e dolore. Al contrario, lo sviluppo di quella gravidanza potrebbe anche aiutare la donna a superare il trauma subito, sublimando l’odio e la rabbia in Amore.
Una vita umana, in quanto tale, vale meno di un’altra solo perché frutto di un crimine? Evidentemente, no. Bisogna non identificare l’oggettivo disvalore del crimine, con quello della sua conseguenza, la gravidanza.
La stragrande maggioranza delle donne che abortisce vive poi di rimorsi e rimpianti, non superando mai quel drammatico evento dell’uccisione del proprio figlio in grembo.
Tutte le donne che invece, dopo attimi di dubbio, proseguono e completano la gravidanza – e diventano mamme – ringraziano il Cielo ogni giorno per aver fatto la scelta giusta.
Chiaramente, con queste parole non vogliamo far apparire facile una scelta come questa, bensì, proprio perché difficile, auspichiamo di poter fornire i giusti punti di riferimento. L’approccio alla vita umana non deve mai essere di tipo soggettivo ma partire da un punto più alto, che contempla anche gli esseri più deboli e fragili. Come un figlio nella pancia della madre. Che può ucciderlo o portarlo alla nascita.
Un po’ di dati in Italia nel 2017
- ogni 57 bambini nati vivi, 1 bambino è stato ucciso con l’aborto
- ogni 1000 bambini nati vivi, più di 17 bambini sono stati uccisi con l’aborto
- le donne che hanno abortito sono:
- 46,7% in possesso di licenza media superiore
- 46,9% occupate
- 59,4 % nubili
- 34,3 % coniugate
- 44% senza figli
- le donne straniere che hanno abortito sono
- 30,3% sul totale di aborti
- 45,5% in possesso di licenza media
- 37% occupate
- 48,1% nubili
- 46,5% coniugate
- le donne minorenni che hanno abortito sono il 2,8% sul totale delle donne che hanno abortito
Fonte: Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (L. 194/78) – Dati definitivi 2017 (Roma, 31 dicembre 2018)
Tali numeri, ci danno la triste idea di quanto la pratica abortiva sia diffusa, ma tuttavia confermano un dato: la propaganda abortista si fonda ideologicamente su casi-limite.
Spesso, l’aborto ci viene presentato come una scelta a cui ricorrerebbero delle minorenni disperate, in balìa di ‘incidenti di percorso’, ma i dati, che indicano l’elevatissimo tasso di ricorso ad aborti tra le donne occupate e coniugate, dunque il tipo di donna al di fuori di ogni possibile ‘zona di rischio’, e il bassissimo tasso di aborti tra le donne minorenni suggeriscono come tale pratica sia effettivamente finalizzata al controllo e alla pianificazione delle nascite.
In ogni caso, è sempre opportuno fare riferimento ai Princìpi.
La problematica dell’aborto, più delle altre, deve necessariamente essere inquadrata al di là di ogni possibile aspetto morale, che metafisicamente non ha alcun tipo di importanza, lì ove conta solamente l’obiettività: le conseguenze psichiche e spirituali di un aborto, sia nei confronti di chi lo subisce, sia da un punto di vista cosmico, non variano sulla base delle motivazioni individuali che hanno spinto a compierlo.
In ogni caso, pertanto, non sono criteri individuali che contano, ma solamente un categorico «Sì!» alla vita, a tutte le sue possibilità, a tutte le sue prove e le sue sfide: con coraggio e affidamento, oltre ogni buonismo e bandendo ogni retorica.